
Ai “nuovi” poveri si aggiungono quelli da tempo presenti tra noi: i disoccupati, i “senza fissa dimora”, gli immigrati privi di permesso di soggiorno o di residenza, gli ex carcerati, i tossicodipendenti, gli alcoolisti. Ma anche uomini o donne disoccupati; separati, anziani, studenti universitari che hanno perso il sostegno familiare.
Sia pur rapidamente, desidero delineare perché sia legittimo accostare l’aggettivo “nuovo” ad una situazione - la povertà, appunto – antica, radicata, estremamente diffusa. L’aggettivo può essere giustificato a due livelli: il primo riguarda i mutamenti intervenuti nel modello di interazione sociale della contemporaneità, fortemente caratterizzato, soprattutto nei centri urbani, da una frammentazione progressiva, che colpisce istituzioni e gruppi consolidati da secoli, addirittura da millenni, alcuni, come la famiglia, e da un modello che esalta l’individualismo proprietario, il successo personale, che fa perdere valore alla coesione sociale, ed anche familiare, alla solidarietà sociale diffusa, alla responsabilità comunitaria. continua >>
di Matilde Callari Galli Professore Ordinario di Antropologia Culturale all’Università di Bologna e VicePresidente della Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna (http://www.socialnews.it)
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