mercoledì 28 dicembre 2011

Il Carteggio Vicari-Pound

il fare aperto
Giambattista Vicari-Ezra Pound, 
"Il fare aperto", ( a cura di Anna Busetto Vicari e Luca Cesari), Archinto, Milano, 2000 

Giambattista Vicari, La letteratura in altro modo


Se l’altro ieri eravamo giovani, perché non dovremmo tentare di esserlo ancora e sempre, magari in un altro modo? (G.B.V.1960)


La parte più consistente di questo carteggio appartiene agli anni della vita e del lavoro di mio padre, rimasti in sordina, sconosciuti, quasi. Credo che da ogni libro possano nascere delle occasioni, numerose quanto quelle che l’hanno costruito, e così, anche da questo, potrebbero saltar fuori ‘fatti insospettabili’, a disposizione di qualche curioso. Dunque vorrei semplicemente dare alcune informazioni a quei lettori che stupiti potrebbero chiedersi : “Ma Vicari chi è?”. Prima di tutto, era un ravennate : ricevette “spirito e alito di vita dal Mausoleo di Galla Placidia” nel 1909. Prese una laurea in legge a Bologna, e iniziò con un impiego in banca. Ma poco dopo scelse il giornalismo. Quello fu il suo vero lavoro di tutta la vita, ciò che gli garantì le finanze necessarie per dedicarsi alla letteratura. Nel ’31 fu direttore del giornale “Santa Milizia”, organo della federazione fascista di Ravenna. Nel ‘32-33 ebbe cariche politiche fino a diventare giovanissimo federale. Fu un impegno preso senza vocazione, che lo rese presto isolato nell’ambiente politico e nella sua stessa città. Lì - disse più tardi- aveva bruciato la sua giovinezza : per ingenuità aveva accettato l’invito dei più vecchi, credendo – lui che non era compromesso - di poter avvicinare tutti gli altri giovani come lui e ‘lavorare’. Ma si accorse presto che la classe dirigente era inamovibile e che non c’era spazio né per i giovani né per altro. “Calcolando che quelli che nel ’22 avevan diciott’anni, possano sparire – morire – quando ne avranno 70, i giovani cominceranno ad avere qualche speranza nel 1974. Beh, salutiamoli e andiamocene, torneremo nel ’74 per vedere se c’è posto …”(da un diario inedito del ’34). E se ne andò : “vuoto intorno”, ma pieno in sé. La vena di scrittore si manifestò con un libretto dedicato alla sua città, la Guida sentimentale di Ravenna (1934), nel quale Vicari tracciava itinerari inconsueti per i futuri visitatori della sua città. Gli stava a cuore che si cancellasse il luogo comune che la voleva ‘città morta’, puramente monumentale. E non immaginava lui stesso che presto se ne sarebbe staccato. Pochi anni dopo, infatti, abbandonò definitivamente Ravenna per Roma. Nel ’38 era capo-redattore al “Meridiano di Roma”, dove pubblicava i suoi articoli con lo pseudonimo Fuisti, quandò incontrò Pound che gli chiese di aiutarlo nella redazione italiana dei suoi articoli per il giornale. Le prime lettere di Vicari a Pound hanno un tono reverenziale. Le differenze tra loro erano enormi, e non solo per l’età, la provenienza, gli incontri e i progetti, ma per i differenti caratteri e modi di affrontare la vita. Ma su alcune cose credo che si trovassero facilmente d’accordo. Vicari era molto più giovane, ma esigente : si era già fatto un’idea di ciò che gli piaceva in letteratura e, soprattutto, di ciò che non gli piaceva. Nel libro che raccoglieva i suoi articoli pubblicati sul “Meridiano”(Fuisti, Sembra letteratura, Pretesti di vita letteraria, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1940) scriveva: “E’ bastata una breve esperienza per convincerci che la malattia più grave di cui è malata la letteratura d’oggi è il clientelismo ... un complesso di atti intesi a legare al proprio carro i vari bestioni trafficanti in letteratura, buoni, buoni sempre a spingere le più cigolanti ruote, a muggir d’entusiasmo a un cenno ... Recensioni a catena, scrivi tu che scrivo io, pubblicità gratuita: ecco il sistema, sempre improntato al do ut des, in ogni caso sul favore reciproco... Ora bisognerà pur chiedersi se non sia il caso di smetterla con quest’usanza di covare le proprie uova nel nido altrui e se non sia il caso, puttosto di ricostruirci più scomode - ma più nuove e personali- posizioni di lavoro…”. E queste e più nuove e personali posizioni di lavoro Vicari cominciò a costruirsele fuori dalla redazione del giornale. Agli inizi degli anni ‘40 intravvide la possibilità di ravvivare quella che era stata fino ad allora una rivista di radici provinciali, “Ansedonia”, diretta da Antonio Meocci. Scrisse inumerevoli lettere agli amici scrittori, in cerca di adesioni; la sua convinzione che l’esperienza più interessante di quegli anni fosse sui fogli letterari(“Frontespizio”, “Prospettive”, Letteratura”, “Corrente”) e sulle terze pagine dei quotidiani, lo spingeva nell’impresa di creare una rivista che esprimesse quell’intenzione di fondo : compiere un’opera di chiarificazione letteraria, richiamare i critici al loro compito. Coinvolse Franco Fortini, Adriano Seroni, Giambattista Angioletti, Geno Pampaloni (che era già nella vecchia redazione di “Ansedonia”), Giacinto Spagnoletti. Dal numero 3 dell’Aprile 1941, “Ansedonia”, divenne “Lettere d’Oggi”. Vicari, che ne aveva preso la direzione dal n.1, progettò subito un’attività editoriale da affiancare alla rivista: una collezione di romanzi brevi e una serie dedicata ai saggi e ai racconti(detta “Biblioteca Minima Tempus”). Già da Gennaio, Vicari era stato richiamato in guerra e nonostante ciò, la rivista, appena rinata, procedeva senza inceppi. Era mensile e fino a tutto il ’43 (anno in cui furono sospese le pubblicazioni) uscì sempre regolarmente. Nel Giugno 1942 Vicari pubblicò una raccolta di brevissimi racconti un po’ surreali: Il Libro dei sogni, dedicato a Giovanni Macchia, che dal dicembre ‘41 era diventato condirettore di “Lettere d’Oggi. Era il primo libro della serie della Biblioteca Minima. I testi erano accompagnati dai disegni degli amici pittori : Ciarrocchi, Tamburi, Purificato, Omiccioli, Savelli, Maccari, Gentilini. L’incontro e l’amicizia di Vicari con i migliori pittori e incisori di allora rivelava una sensibilità particolare alla forma del libro, che nel tempo coltivò sempre più. “Lettere d’Oggi”si dedicava unicamente alla prosa e alla narrativa e i nomi pubblicati furono quelli dei più giovani e interessanti narratori: Pavese, Delfini, Manzini, Landolfi, Cancogni, Bigiaretti, Emanuelli, Morovich. Tra il ‘42 e il ‘43 uscirono in volume La spiaggia di Pavese, L’abito verde di Morovich, Delitto sullo scoglio di Cancogni, Esterina di Bigiaretti, Oceanografia del tedio di D’Ors, Giorni aperti di Caproni, Carta da visita di Pound. Questo limite all’impegno della rivista aveva il sapore di un desiderio di disciplina interna e dunque di maggiore possibilità di approfondimento. Aprirsi anche alla poesia avrebbe forse potuto turbare quel bisogno di limpidezza e di riconoscibilità, rischiando di fare di “Lettere d’oggi una semplice antologia a discapito dell’incisività di una scelta circoscritta. E poi, forse,Vicari amava meno la poesia … .“Basta con la poesia massimo ed unico denominatore: e quale, del resto, schema più falso e artificioso di questo? I generi tutti, si nutrono di poesia ...” . Questo, che Vicari scrisse su “Ansedonia“ nel 1940, si potrebbe considerare un’anticipazione di quella battaglia ai generi letterari che fu tra le fondamentali della rivista “il Caffè” che fondò poi, nel 1953. Molti degli scrittori di ”Lettere d’oggi”, invece, Pound non li amava proprio: “tu non m’hai convinto del valore della maggioranza dei vostri lettered’oggisti ”, scrisse a Vicari nel dicembre 1943. E il suo testo Narrare pubblicato sul n. 5-6 del 1941 è indicativo : solo Tozzi, Morselli e il Moscardino di Pea meritavano di essere letti oltre i confini italiani. Tra quei pochi libri ce ne fu un altro che Pound elogiò incredibilmente : l’unico romanzo pubblicato da Vicari, Il Cortile, uscito nel 1943 nella collezione di “Lettere d’Oggi”, per il quale il poeta desiderò anche una traduzione in inglese. Si trattava della descrizione della vita di un cortile e - ancor più che la vita pratica dei personaggi - le voci, i ricordi, i rimpianti. Il protagonista Ulisse si trova “in un sol colpo, come buttato nel cortile” di una casa. E’ una ‘nascita’ traumatica, dopodichè, per il personaggio, la vita consiste nell’osservare quella altrui. E il cortile diviene così un sipario, dove voci finora sommesse divengono concrete e i fantasmi uomini, vite reali. I vecchi cortili “tengono strette coi loro denti di sasso, finchè possono, le loro cataste di segreti rugginosi, malinconici… La luce è un flagello…Tutto viene a galla”. E’ così per Ulisse, che,” ritrova la strada di un dolce patimento, guidato verso la vecchia casa da un lontano istinto scaturito come per destino in un momento qualunque della sua vita randagia”. Ulisse rinasce, ritrova il tempo, si ricongiunge con la sua vita passata. Il cortile è il testimone e il custode di tante vite, ricordi e destini. E lui torna là, ricomincia la sua vita da dove aveva preso la piega sbagliata, cioè quando s’era fatto prendere dal desiderio di dimenticare. “Da che cosa viene tutto questo agitarsi degli uomini se non dal desiderio di dimenticare qualche cosa?” Pound definì il romanzo “elegia tremenda” : un senso di immobilità ne percorre tutte le pagine, qualcosa che non ha inizio né fine, come intuisce alla fine il protagonista : “che soltanto ciò che è nel mezzo conta e rappresenta la vita, l’unico istante in cui la vita sia davvero per quel breve momento che è consentito”. Vicari, poi, più avanti negli anni, disse di non amare e non riconoscere più quel libro, che tra l’altro, a causa della guerra, non fu mai distribuito. Dopo queste prime prove Vicari abbandonò la narrativa : “La veste del sottoscritto (piccolo imprenditore letterario, assistente perpetuo al lavoro altrui) gli ha tolto ogni velleità di trasformarsi in partecipante attivo” scrisse in un autoritratto (Ritratti su misura, a cura di Elio Filippo Accrocca, Sodalizio del Libro, Venezia, 1960). E così coltivo la vena di scopritore di talenti, di editore, di tipografo raffinato (negli anni ‘50 stampò libretti preziosi, di misure e forme inconsuete), di giornalista, di letterato aperto. Una forza accomunava Vicari a Pound; e stava nel cercare e difendere un’idea di letteratura che non fosse quella più facilmente riconosciuta, assegnando il ruolo fondamentale alle riviste e al dibattito che esse dovevano garantire. Scriveva a Pound: “Sono nemico degli estetizzanti quanto dei propagandisti. Tra l’ eccessiva purezza dei primi e il moralismo utilitario dei secondi c’è la vera umanità, la rappresentazione sotto specie di poesia”. E a proposito delle riviste, Vicari denunciava il rischio che queste correvano di trasformarsi in “magazzini eclettici”: “Ecco dunque cos’è una rivista letteraria: o una tribuna del tutto libera e solitaria, o una zona di interessi comuni, un mercato continuo. E il mercato, naturalmente, è attivo e dignitoso a seconda dei materiali che vengono offerti”. Vicari stimò sempre moltissimo la letteratura francese e il suo ambiente letterario, nel quale le riviste agivano con una stimolante azione di sostegno e di accompagnamento del fatto creativo. Ma constatava anche la caduta di ruolo di alcune di esse, come nel caso della “Nouvelle Revue Française”, che in qualche modo campava di rendita, ormai canonizzata per il passato illustre, ma povera delle grandi collaborazioni degli inizi. Il rapporto con Pound fu ricco di scambi, di opinioni e di consigli, ma anche di aiuti pratici. Una grande riconoscenza reciproca viaggia tra le righe di queste lettere: Pound soffrì molto l’incomprensione, la tendenza comune ad alcuni ambienti letteraria non tenerlo in considerazione. Manifestò tutta la rabbia per i grandi fraintendimenti a cui era soggetto in Italia a Vicari, che fu tra i pochi a seguirlo, forse a volte anche senza capirlo del tutto, ma privo di preconcetti. La loro corrispondenza non fu solo letteraria : i frutti della loro amicizia non maturarono solo su libri e riviste, ma anche molto praticamente e, credo, con grande soddisfazione di entrambi, nell’orto di Vicari. Pound (anzi, la moglie per lui) gli inviò infatti dall’America, pacchi pieni di cibarie e di semi di verdure per l’attività di ortolano che Vicari si era improvvisato a fare per sostenere la famiglia (nel ’47 aveva comprato una casa con terreno sulla Cassia, a Tomba di Nerone dove poi lo raggiunsero da Ravenna la madre e la sorella). “Le sono grato della scatola di semi che ho avuto e già seminato nella mia campagna. Queste piante mi ricorderanno il grande amico lontano, e mi sembrerà di avere un poco di lui, qui ”, scrisse Vicari a Dorothy nel ’47. Dopo l’8 sett. ‘43 non vide più Pound fino al suo rientro in Italia nel ‘58. E, in previsione del suo ritorno in Italia, gli offrì ospitalità senza limiti. Negli anni ’50 Vicari collaborò a varie testate : quotidiani e periodici. Era il critico della ”Settimana Incom”, frequentava la cultura ufficiale e i caffè di Piazza del Popolo e via Veneto. Ma doveva sentire una decisa insoddisfazione se di lì a poco iniziò, in clandestinità, l’impresa del “Caffè”: “Si dovrebbe fare un giornale che dica la verità su tutto e su tutti, senza paura, dovremo pagarcelo noi, non è possibile accettare niente da nessuno”. All’inizio si chiamò “venerdì “il Caffè” ed era un giornaletto di poche pagine che si dedicava anche al costume e all’attualità, l’aspirazione era di “portare la letteratura al cospetto di un larghissimo pubblico, una specie di ragguaglio totale di ogni aspetto vivo e attuale della cultura”. Ma la spinta più profonda era quella di trovare scrittori nuovi: la cosa più avvilente era per Vicari vedere come i toni dell’ermetismo e del lirismo venissero di continuo ripetuti pur essendo ormai svuotati. Ne scrisse a Pound : “La prosa è un poco più viva, varia. Tra i giovani ci sono buoni romanzieri: però non c’è nessun gusto per la lingua, per le strutture. Siamo in una rozza fase d’incultura: Manca un faber, anche piccolo, che susciti problemi. Ci vorrebbe il tuo grande magistero!” Sul primo numero del’54 Vicari pubblicò un florilegio tratto dai Canti Pisani nell’edizione Guanda curata da Rizzardi, e in una breve nota citò passi di una lettera ricevuta da Pound, di cui non c’è traccia negli archivi: “Per sapere dove sta il pensiero contemporaneo evitare le idee reçues… Non so se esistono ancora copie del “Mare” di Rapallo come prova che ho cercato di portare materia utile alla vita intellettuale in Italia. Non importa se cinque romani o ravennati, o chiunque cominciano adesso a tradurre i libri basilari. Non è lavoro da un uomo solo. … Certamente tua rivista deve pubblicare il manifesto dei 10 professori per il risveglio degli studi classici. Ma non dormirci sopra”. In ogni caso Vicari aveva un suo gusto, una sua idea di letteratura, e da allora in poì investì tutto nella sua rivista. Nel ‘56 “il Caffè” trovò la nuova veste, abbandonò l’ampio raggio e scelse il suo nuovo stile. Gli amici che si impegnarono con lui a trovare la nuova strada furono Emanuelli, Calvino, Soavi, Flaiano. Sarebbe scorretto definire “il Caffè” in poche righe, ma poichè Vicari stesso nel giro di pochi anni da “rivista politica e letteraria” passò a chiamarla “letteraria e satirica”, prenderemo questa definizione come quella più utile a intendere quel vasto repertorio che fu per venticinque anni (fino al 1977). E voglio citare alcuni passi di quello che fu il primo ‘manifesto’ della rivista (“Pagina quarantotto”, 1957) : “Pensiamo a una verità in movimento, che la letteratura deve sempre includere come una profezia…Sollecitiamo un continuo tentativo d’aggiornamento della parola che si atteggi in simboli continuamente imprevisti… Perciò diffidiamo soprattutto del moralismo diretto, del patetico esplicito, del lirismo, che automatizzano l’ispirazione e preferiamo genericamente indicare l’ironia, la comicità, ma soprattutto la parodia, il grottesco, la ricerca dell’eccentrico ( cioè le deformazioni: e non le più facili) come i più fecondi stimoli, per lo meno come i mediatori per giungere a significati e prospettive perennemente nuovi”. Il nuovo sottotitolo fu scelto nel 1964 : “enciclopedia permanente della letteratura eccentrica” che al numero seguente divenne “letterario e satirico”, appunto. Il primo numero di quell’anno presentava testi di Roger Caillios, Wolfgang Hildesheimer, Aldo Buzzi, Stephen Themerson. Ma già alla fine degli anni ‘50 “il Caffè era diventato tale: ospitava i nomi più interessanti della letteratura mondiale. Molti testi creativi, soprattutto in prosa, e una “zona riservata” allo studio della satira, dell’eccentrico, del grottesco. Ogni numero, poi, ospitava disegni di Maccari, Folon, Guelfo, Zannino, Cardon, Topor. L’attenzione di Vicari alla grafica non va dimenticata, non solo per la quantità di disegni satirici pubblicati sul “Caffè”, ma per la cura particolare che dedicò sempre alla composizione di ogni numero, che montava e smontava da sé, nello studio di casa, finchè non ne usciva la forma voluta. La veste del” Caffè” mutò varie volte : alle copertine celesti, seguirono quelle bianche (progettate da Max Huber) e poi le ultime, nere : ma con una certa raffinatezza e classicità che le accomunava, soprattutto nella scelta dei caratteri tipografici. Fu Pound, come si legge nella sua lettera del 31 Agosto 1958, che, appena rientrato in Italia, propose a Vicari di dedicare uno spazio del “Caffè” alla recensione di libri scelti da lui, “ma recensiti da persone di fiducia” (Risi, Giudici, Bertolucci, Martino e Anna Oberto). Poco dopo, sul n.10 uscì un articolo di Pound, che pubblichiamo in appendice; è preceduto da una raccomandazione autografa all’amico : “Vic, meliorare espressione, corrigere grammatica”. Dunque, quasi vent’anni dopo, il rapporto tra i due procedeva secondo i canoni che ne avevano segnato l’inizio, tra le bozze nella redazione del “Meridiano”, quando Vicari era chiamato a correggere la forma italiana degli scritti di Pound. Vicari si prestava ancora con interesse e con affetto, ma da una posizione letteraria più forte ora, più sicura, anche se mai definitivamente consolidata. La sua rivista, nata in clandestinità, procedeva con la stessa precarietà degli inizi, soprattutto per ciò che riguardava i mezzi finanziari, gli editori, i distributori. Ed è curioso notare come anche lo scritto di Pound del ‘58 uscì anch’esso in maniera sorprendentemente clandestina; Vicari lo pose nelle ultime pagine, quelle del “Gazzettino”, dedicate alla discussione, ai fatti redazionali, alle notizie spiritose sull’ambiente letterario, con qualche sapore goliardico degli inizi, sulle quali anche Vicari, sotto lo pseudonimo di R.G.Giardini, si divertì per anni a ‘infastidire’ la redazione. Lui conosceva bene la sua strada : gli ripugnavano il neo-realismo e la prosa d’arte. Preferì sempre, oltre ai grandi Palazzeschi, Gadda, Delfini e i più giovani Calvino, Fratini, Arbasino, rischiare con nomi sconosciuti e ancora da vagliare, ma che stavano percorrendo strade diverse da quelle comuni. Così entrarono al “Caffè” Corrado Costa, Guido Ceronetti, Giorgio Manganelli, Augusto Frassineti, Luigi Malerba, Gianni Celati… e poi tutti nomi del gruppo ’63, per lo stretto e antico legame tra Vicari e Anceschi direttore del “Verri”. Piovevano spesso sul “Caffè” critiche aspre, anche se mai feroci, poiché da parte di molti la rivista e il suo direttore”, per quell’aria di lieve eleganza, non erano presi ‘sul serio’. Anche Vicari, a modo suo, fu soggetto a fraintendimenti: l’eccentrico, il grottesco, il nonsense e le varie diramazioni (patafisica, oulipo, lettrismo e tutte le ‘deviazioni’ letterarie) venivano scambiati per disimpegno. E chissà qual era il giudizio di Pound sulla rivista, mai espresso direttamente in questo carteggio. Una lettera del ‘56 di Vicari, che proponeva a Mary De Rachewiltz (anche lei collaboratrice del “Caffè” con traduzioni da Cummings e Laughlin) di pubblicare sulla rivista una “testimonianza” su Pound, fu sottolineata da Olga Rudge, divertente e impietosa al tempo stesso, con un avvertimento per la figlia: “io direi di NO! Tuo padre commenterebbe “non saria compagnia seria”… lui pare una persona seria (un po’ leggerone forse) ma i caffeioli?? DUBITO”. Ma un’altra lettera di Mary a Vicari del 18 aprile 58, riporta un giudizio del padre: “Caffè excellent/ you can release this note on sculpture to Vicari when you like/”. Certo è che “il Caffè” Vicari lo tenne sempre aperto, finchè visse. Non divenne una scuola, una corrente di formazione, fu però, per molti anni, un laboratorio, per quanto clandestino. E va detto che questa clandestinità fu scontata tutta in Italia perche dall’estero, soprattutto dalla Francia, arrivavano nella casa di Via della Croce (che fu anche sede della redazione della rivista) le lettere entusiaste e gli scritti di Queneau, Tardieu, Adamov, che “il Caffè” pubblicò sempre in anteprima. E dei dimenticati Cros, Morgenstern, Roussel, Leacock, Bierce “il Caffè” si ricordò benissimo : li pubblicò in quegli anni fine cinquanta - inizi sessanta, che furono i più fervidi per la rivista e nei quali Vicari curò due antologie sull’umorismo (Umoristi del 900, Garzanti, 1959 e Umoristi di tutto il mondo, Rizzoli, 1963). Vicari accantonò gli scrittori che si servivano semplicemente degli strumenti del comico e scelse l’humour, “il quale - scrisse nell’introduzione a Umoristi di tutto il mondo, - è una sottile suggestione stimolante, un contrassegno, una disponibilità d’ordine spirituale in cui sono impegnate e chiamate in causa tonalità e motivazioni ben più ampie e diremmo totali, oltre le misure e gli schemi del genere”. Quell’estetica dell’eccentrico fu poi espressa da Vicari in diciannove saggi semiseri raccolti ne La smorfia letteraria (Maccari, Parma, 1968). E nel ’71 pubblicò Sembra letteratura, con la presentazione di Luciano Anceschi che scriveva: “noi dobbiamo a Vicari il riconoscimento e la definizione di un filo sottile della letteratura: una letteratura che, dopo essersi distrutta nell’ironia, non ha paura di ritrovarsi come stravaganza e nuova libertà. Ormai certi nomi li sappiamo tutti, e con loro certe relazioni, certe consonanze; ma Vicari li ha riconosciuii e raccolti prima di qualunque altro, con un gesto insieme affettuoso, preciso e distaccato”. Come appaiono lontane ora le prove del Cortile. Quella che era apparsa agli inizi come una forma di discrezione, si era poi rivelata negli anni come un intervento preciso e continuo nella letteratura:la battaglia ai luoghi comuni per Vicari si faceva così, rinunciando alle definizioni, alle catalogazioni. Erano già arrivati gli anni del silenzio. Pound non scriveva più all’amico. Vicari, se ne rammaricò molto, credeva che l’equivoco per i Versi prosaici, che aveva stampato in formato diverso da quello desiderato da Pound, avesse causato la rottura. Uno degli ultimi saluti di Ezra a Giambattista è dell’1 Agosto1971. Un segno meno deciso in calce a una delle due lettere di Olga Rudge che abbiamo scelto di pubblicare. A lei Vicari si era rivolto in quegli ultimi anni, per chiedere notizie del poeta, con lettere di cui s’è persa ogni traccia; non sappiamo cos’avesse scritto, ma sicuramente cercò la rassicurazione che in qualche modo ottenne da Olga:“Non è uno di quei vecchi che vivono nel passato. Ma non dimentica gli amici”. Vicari continuò a combattere, pervicacemente e appassionatamente, con il suo esercito di irregolari, una battaglia che appariva sempre più difficile. I pesantissimi anni ’70, si facevano sentire anche sulla rivista, che perse la leggerezza e la ricchezza creativa degli anni ’50 e ’60. E si aggiungevano le sempre più pesanti difficoltà pratiche (finanziarie ed editoriali) : ” sto definitivamente tirando le somme. I conti non tornano. La fatica materiale per tenere in piedi la baracca del “Caffè” è immane”. E “il Caffè” chiuse definitivamente nel ’77, poco prima che prendesse congedo definitivo anche il suo direttore (marzo ’78). Ma si era seminato : i frutti di quelle scelte, che aprirono le porte della letteratura a vie più anticonformiste e libere, sono sparsi – immagino - un po’ ovunque. Varrebbe la pena, ora, ritrovarne le radici. 

Anna Busetto Vicari su http://www.ilcaffeletterario.it

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