venerdì 9 dicembre 2011

Enrico De Vivo, Nel torbido specchio del padre


“C’è quest’uomo che è diventato piccolo piccolo. C’è quest’uomo che s’alza di notte e di giorno e si spoglia continuamente, per togliersi via la merda di dosso, e si lava e si riveste e si risporca”. Si descrive così il protagonista di Ricci (Italic, 2011) di Linnio Accorroni, un vecchio ottantenne a cui resta poco da vivere a causa di un cancro all’intestino. Ci racconta la sua vita quotidiana fatta di pannoloni, di continue perdite, di dolori, di puzze, di umore quasi sempre nero. Le implicazioni coprolaliche sembrano la cosa che lo attira di più del suo status di malato. Come gli piace, a quest’uomo, declinare il tema escrementizio in tutte le accezioni possibili! Ha fatto delle ricerche su Google, ha registrato casi particolari, anche occorrenze colte (Pontormo, Bacon, Tanizaki) riguardanti la defecazione e le deiezioni liquide o solide, più o meno insanguinate.
Ma il suo racconto coprolalico ospita un intruso che merita attenzione. Fin dalle prime pagine, si presenta con oculati interventi in prima persona suo figlio S., di mestiere insegnante, che osserva il padre in tutto quello che fa, lo spia e, soprattutto, gli si rivolge quasi sempre come a un fantasma. Il fantasma del padre, appunto: la cui storia, allora – è legittimo sospettare – altro non è che un riflesso di qualcosa o qualcuno che nemmeno sappiamo se esiste in realtà. Del resto, nessuna figura è più insostanziale ed evanescente di quella paterna. Eppure, il professor S., come tutti i figli, sogna la morte del padre (è il modo dimesso, difensivo, retorico con cui si rivolge al fantasma che ce lo fa sospettare), non sa fantasticare d’altro che di questo.[...] 
(Enrico De Vivo: scrittore ( “Racconti impensati”, Feltrinelli,1999 e “Divagazioni stanziali”, QuiEdit, 2009), curatore di una rivista ‘militante’ on line (Zibaldoni ed altre meraviglie) e di una collana editoriale ( “Questo è quel mondo”). Scrive questo a proposito di ‘Ricci’.)

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